La più grande e la più celebre delle sculture dell’antichità che ci sia pervenuta è senz’altro la Sfinge. Rappresenta il dio Ra-Harakhty, una personificazione del Sole all’orizzonte, ma nel volto umano posto sul corpo leonino a tuttotondo si sono volute vedere le sembianze di Chefren. Più tardi fu anche battezzata "la statua vivente" (shespankh, da cui il greco sfinge), e gli arabi la chiamarono a loro volta Abou Hol, "Padre del terrore". In parte modellata su una roccia naturale assai tenera, la Sfinge, lunga 57 metri e alta 20, si è molto deteriorata attraverso i secoli. La mancanza del naso, dovuta alle esercitazioni di artiglieria mammelucca, dà al suo volto un’imperturbabilità che è diventata proverbiale. Ma per quanto impenetrabile, il volto della sfinge ci trasmette un’informazione preziosa: minime tracce di colore che vi affiorano fanno dedurre che, in origine, l’enorme statua fosse completamente dipinta. Nel 1400 a.C. il faraone Tutmosi IV sognò la Sfinge alla vigilia della sua incoronazione, e in segno di gratitudine fece dissotterrare l’antica scultura e innalzare tra le sue zampe una stele commemorante l’avvenimento. Quando il generale Bonaparte arrivò in Egitto, solo la testa della Sfinge, il collo e una minima parte delle spalle emergevano dalle sabbie. I tecnici francesi, che come tutti gli europei, non sapevano nulla della cultura egizia, videro in quella colossale testa di donna la rappresentazione zodiacale della "vergine". I lavori intrapresi per liberarla dalla sabbia iniziarono nel 1816, continuarono dopo un’interruzione nel 1853 per opera di Auguste Mariette, e furono completati nel 1866. Fu allora che si scoprì l’intervento di Tutmosi IV.